domenica 5 marzo 2017

L’amore di una mamma non si perde, continua anche dopo la sua morte


Una figlia, la malattia della madre. E un dolore che si rinnova ogni giorno. Finché «non capisci che amare ed essere amati è seguire un odore senza perderlo». Il senso forse è tutto lì…

 Amare ed essere amati è seguire un odore senza perderlo. I camoscini seguono l’odore di mandorla che lasciano papà e mamma. Sempre. Finché non diventano genitori a loro volta e si fanno seguire dai figli. L’ho letto in un libro, e ho ringraziato chi l’ha scritto. Il senso, quello che cerco da mesi, forse è tutto lì.

 Da piccola avevo un sogno: fare il medico, e per anni ho creduto sarebbe stato questo il mio destino. Poi la scelta. Avevo ben chiaro il prezzo e ho rinunciato. Volevo una famiglia, e non volevo incontrare i miei figli la sera, dietro una favola letta a un bambino che magari non riconosco più. Per i miei genitori io e mia sorella siamo state la priorità assoluta: una sensazione che vivo come un’eredità. Per uno scherzo del destino gli ospedali però li ho frequentati per oltre dieci anni. Senza camice ma in veste di figlia. Ho iniziato con la diagnosi di sclerosi multipla di mio padre: la malattia gli rubò ogni pensiero positivo, anche per noi figlie. Il suo ruolo è passato nelle mani di mamma: donna speciale, saggia e coerente: sui principi e sui sentimenti non si negozia, diceva.

 Grazie a lei raggiungiamo un equilibrio: precario per sua natura, certo. Ma lo è ancora di più se il destino fa il suo corso. È una sera d’estate, ulivi e luna piena di Sicilia. Le bambine giocano e urlano. «C”è una brutta cosa nell’ecografia di mamma», mi dice il medico al telefono. Doveva essere un controllo, inizia invece una nuova vita: speranza, cure, ospedali, persone che entrano e altre che escono dal cuore. Non c’è nulla di nuovo in questa storia lo so. La sofferenza in giro è ovunque, non abbiamo tempo per vederla magari. Ma alla fine un senso si riesce a dare quasi a tutto. Io l’ho dovuto fare, per fortuna a 37 anni e mano nella mano con un marito e una figlia: Silvia.

Tumore è una parola che spaventa: gli stessi oncologi le preferiscono neoplasia. Poi c’è la malasanità: medici che fanno orari d’ufficio, sgarbati o incompetenti. Uno sputo verso la dignità umana. Ci sono anche quelli con un sorriso per tutti, i primi ad entrare in servizio e gli ultimi a finire: li ho conosciuti negli ospedali della mia terra, con buona pace delle referenze e dei pregiudizi. Certo mi sono sempre chiesta cosa pensava la famiglia di quella loro scelta vissuta come missione. Poi ci sono io che mi addormento sui divani delle corsie. E che al di là di ogni medico, mi accorgo di sintomi preziosi. Mi sento indipendente e forte ma sono rimasta una figlia. Che poi è diventata una madre. La nausea e il vomito della seconda gravidanza mi hanno costretto ad allentare però l’assistenza a mia mamma.
In vista del distacco, mi sono concentrata su una gioia che mi avrebbe dato la forza per andare avanti. Nulla avviene per caso. Non so perché ma ho sempre pensato che sarebbe arrivata un’altra bambina, i medici me lo confermavano ogni volta. A mia mamma dicevo: la chiamerò Viola. Lei con una smorfia: «E se fosse maschio?». «Maschio?». Se la rideva.

 La notte in cui morì io non c’ero. Avevo condiviso tutto con lei ma lì non c’ero, neanche in ospedale sono arrivata in tempo. Avevo la febbre alta. E lei in fondo non avrebbe mai voluto che ci fossi. Se n’è andata serena, pregando e mandando saluti a tutti. Era successo quello che per mesi era stato l’incubo peggiore. Per tanto tempo avevo sognato il mio esame di maturità, un esame che andava malissimo. Quella notte invece ho risposto a tutte le domande. Le mie paure erano diventate realtà e mi avevano dato tregua. Non dovevo più temere il telefono in piena notte. Il giorno dopo l’ho sognata di nuovo: bella come il sole, senza parrucca con i suoi bei capelli, pienotta. Sorrideva. Non aveva più dolori e stava benissimo, diceva. Poi è scoppiata a ridere. «Regala pure i vestiti di Silvia e non comprare più cose rosa, avevo ragione io: è un maschietto!». Non ho parlato con nessuno fino al giorno dell’ecografia. «Mi sono sbagliata, è un bel maschietto», mi ha detto la ginecologa. Il nostro legame si era solo trasformato, avevo avuto la conferma. Ma come farò a partorire senza di lei tra un mese? Me lo chiedo ogni giorno.

 «I rapporti costruiti su basi solide non crollano mai e i bambini lo sentono», mi diceva sempre. Mia figlia ha ereditato da lei la passione per il disegno. Dipingeva sempre fiori. Non ha mai voluto regalare o vendere i quadri: erano una parte privata da condividere solo con noi, una traccia. Casa mia è piena. Il suo quadro più bello invece è ancora a casa sua, incompleto. Lo ha iniziato quando reggeva a malapena il pennello ma era felice: avevo insistito e mi stava facendo l’ultimo grande regalo. Mi piacerebbe completarlo, sentirmi ancora una volta parte di un progetto comune.

 Mi sento una figlia fortunata, una che si è sentita fortemente amata. I ricordi mi assediano. Come quello del suo primo importante intervento, nove ore per asportarle la vescica e inserirle un sacchettino esterno. Cistectomia radicale, un punto di non ritorno. Per me una tragedia: lessi tutti i forum e mi colpì una ragazzina che diceva quanto la sua vita fosse cambiata in meglio. Lo raccontai subito a lei. «Che culo, a saperlo me la facevo fare prima». Sbottammo a ridere come due sceme. Ricordo i pomeriggi trascorsi a scegliere la parrucca su internet: lasciò fare a me e a mia sorella, fosse stato per lei non avrebbe messo nulla. Era una donna semplice. Ricordo il trucco e il parrucco che le facevo prima di ogni chemio, le sue telefonate per raccontarmi i complimenti delle compagne di reparto. Ho visto mettere in pratica tutte le cose in cui credeva. La fede, per esempio, quella con cui accettava tutto senza disperazione. La disperazione è figlia dei sensi di colpa, delle cose che si sarebbero potute fare e non si sono mai fatte. Io non ne ho: ho vissuto il mio rapporto in modo totale anche quando forse avrei dovuto pensare un po’ di più alla mia vita. Questo a lei è arrivato chiaramente.

 Che senso ha una vita che finisce non lo so. Bisognerebbe trovare un senso alla morte forse, per non continuare a torturarci. Non ho cancellato il numero di “Mamy” sul cellulare, mi fa piacere ogni tanto leggerlo. È un dolore che si rinnova ogni giorno quando vorrei raccontarle qualcosa o vorrei che mi consigliasse come vedere il lato positivo in qualcuno che mi ferisce. Mi manca tutto. A volte Silvia guarda il cielo in cerca della stella più luminosa, pensa sia la nonna e prega Gesù di farla scendere un minutino per abbracciarla. Ha vissuto tutto con me. In ospedale, a casa. Medicazioni, parrucche. Spero però che l’odore del mio amore non si mescoli a quello della mia più grande paura: che i miei figli possano vedermi soffrire. E’ un’impotenza nauseabonda. Spero che l’acrilico dei colori nell’aria sia abbondante, spero che continuino quel quadro.

 (Storia di Rossana Amico raccolta da Rossana Campisi)